Stefano Giambellini’s

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Lo stagista presuntuoso

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Un ragazzo di 19 anni mi ha chiesto di seguirlo per imparare il mestiere. Finalmente, un giovane volenteroso, pensavo!

Ma l’entusiasmo è durato poco. Presto si è rivelato per quello che era davvero: un giovane presuntuoso, privo di esperienza, che mi guardava dall’alto in basso, con la fastidiosa abitudine di chiudere ogni discorso con un irritante “Sì, lo so”, cercando in ogni occasione di dimostrare la propria superiorità. Memorabili alcune sue uscite come: “Ma sai di cosa sto parlando?” o “Non credo tu possa capire”, anche su concetti basilari di videomaking. Dopo qualche settimana, del suo desiderio di “imparare” non è rimasto nulla, se non la ricerca di considerazione e celebrazione personale. E oggi, frustrato dall’ennesimo tentativo fallito di ottenere gloria “a parole”, è esploso dandomi del presuntuoso.

Ora, accetto le critiche da chiunque, e valuto attentamente il loro peso. Ma…

Anch’io ho avuto 19 anni. All’epoca, marinavo scuola per insegnare Microsoft Office presso gli uffici della RAS a Milano. Mi presentavo in giacca e cravatta, prendendo il treno alle 6:30 del mattino dalla stazione di Verdello. Non era un passatempo, ma un lavoro, e sebbene mancasse del tutto di creatività, ricoprire quel ruolo mi faceva sentire importante. E ho continuato a farlo fino agli anni dell’università.

Era il 1997, avevo 19 anni e già due anni di esperienza in uno studio di grafica 3D in via Tasso, proprio di fronte al liceo. La mattina andavo a scuola, e il pomeriggio modellavo pezzi di lavatrici in 3D per i manuali di una nota azienda. Il compenso? Una miseria, pagata una sola volta in quasi due anni di lavoro. Ma non mi importava: mentre i miei compagni non avevano idea di cosa fare nella vita, io sognavo un futuro grandioso vedendo il mio nome stampato in calce al manuale della lavatrice. (Povero illuso!).

Nonostante la paga ridicola e le notti passate a rifare render sbagliati, ho sempre rispettato il mio capo, un uomo di polso, ignaro dei processi tecnici, ma che mi aveva dato fiducia. Erano tempi diversi, lo chiamavo “lei” e non avrei mai osato guardarlo dritto negli occhi, figuriamoci dargli un epiteto.

Sono passati 20 anni da quei giorni. Li ricordo con un misto di nostalgia e terrore (soprattutto per la cravatta e i viaggi in treno!). È un discorso da vecchi, lo so, ma il tempo continua a scorrere. Ora tocca a noi della mia generazione. Con anni di gavetta alle spalle, stiamo costruendo le nostre realtà, aprendo studi, assumendo collaboratori di talento, inseguendo la crescita professionale. Eppure, ci sentiamo ancora troppo giovani per quel ruolo da “vecchi”, quello che tanto temevamo. Così, vestiamo ancora come ragazzini, rimandiamo matrimoni e impegni, cercando di fermare il tempo.

Ma la separazione tra la nostra generazione e quella successiva si sta assottigliando. I giovani ci vedono come fratelli maggiori, quelli con cui confidarsi, a cui raccontare segreti che non direbbero mai ai loro genitori. E così, si sentono autorizzati a darci una pacca sulla spalla, quasi a dire: “Ehi, sei stato bravo, ma ora lasciami fare, anche se ho solo 19 anni e nessuna esperienza!”. La confidenza cresce, e con essa la mancanza di rispetto.

È facile puntare il dito contro i giovani, ma è altrettanto importante fare un po’ di autocritica. Dopo aver incolpato genitori, società e sistema, è ora di assumerci la nostra parte di responsabilità.

Dobbiamo saper riconoscere chi abbiamo di fronte e rapportarci nel modo giusto, affinché la loro crescita e la nostra convivenza possano trarne beneficio. Non è facile, né sempre piacevole, ma è necessario. Questa generazione sta crescendo in un caos totale e noi abbiamo un ruolo di guida.

Anch’io farò la mia parte. Inizierò subito. Domani lo manderò a calci dove merita!

Scherzo… o forse no! 😄

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