Un ragazzo di 19 anni mi chiede di portarlo appresso per poter imparare il mestiere. Finalmente un ragazzo giovane e volenteroso!

Ma la felicità dura poco e a breve si dimostra per quello che veramente è: un giovane presuntuoso privo di esperienza che ti guarda dall’alto verso il basso e che si sente in dovere di chiudere ogni argomento con l’irritante “sì lo so” cercando ad ogni occasione di dimostrare la propria superiorità. Memorabili alcune sue uscite del tipo “Ma sai di cosa sto parlando?” oppure “non credo tu possa capire” anche su temi basilari di videomaking spiccio. Trascorse alcune settimane, del desiderio di “imparare” il mio mestiere non ne è rimasto altro che la totale ricerca di considerazione, consenso e celebrazione. Oggi, spazientito dall’ennesimo fallimento nella costante ricerca di gloria “solo sulla parola”, è sbottato dandomi esplicitamente dello sbruffone.

Ora, accetto le critiche da chiunque e rapportate a ciascun individuo cerco di darne il peso che ritengo debbano avere. Però…

Però anche io ho avuto 19 anni. All’epoca impiccavo scuola per insegnare Microsoft Office presso gli uffici della RAS di Milano. Ci andavo in giacca e cravatta prendendo il treno alle 6.30 di mattina dalla stazione di Verdello. Non era esattamente un passatempo. E lasciamo stare quanto mi pesasse la mancanza totale di “creatività” in quell’ambito. Ma era un lavoro e dio solo sa quanto mi sentissi figo solo nel coprire quel ruolo. E continuai imperterrito a svolgerlo fino agli anni dell’università.

Era il 1997, avevo 19 anni e ben due anni vissuti in uno studio di grafica 3D in via Tasso, proprio di fronte al liceo che frequentavo: la mattina a scuola, il pomeriggio in studio a modellare pezzi di lavatrici in 3D per i manuali di una nota azienda.

Venni pagato una miseria e un’unica volta per quei lavori, dopo quasi due anni di lavoro. Ma non mi importava un gran che poiché mentre i miei compagni di classe non avessero la minima idea di cosa fare da grandi, nel mio nome stampato in calce al manualetto della lavatrice sognavo un futuro grandioso (povero illuso!).

E nonostante la misera paga e le notti in cameretta a rifare render sbagliati, ho sempre rispettato il titolare, un uomo tutto d’un pezzo, un uomo totalmente ignaro dei processi necessari per svolgere il lavoro che mi commissionava ma per il quale portavo il massimo rispetto anche solo per il fatto che dimostrasse fiducia in me. I tempi erano certamente diversi, mi rivolgevo a lui dandogli del “lei”, cosa che al posto suo oggi io non potrei di certo sopportare e temevo nel guardarlo dritto negli occhi. Mai e poi mai mi sarei permesso (nemmeno di pensare) di dargli alcun epiteto.

Sono passati 20 anni esatti da quei giorni. Li ricordo con malinconia, dolcezza e terrore (specie la cravatta e i viaggi in treno!). È un discorso da vecchi lo so, ma la ruota che gira nemmeno stavolta si sta fermando. Ora dall’altra parte ci stanno entrando quelli della mia generazione. Chi più, chi meno, con gli anni di gavetta alle spalle ci stiamo costruendo ognuno la propria realtà. Nel mio settore, ambiamo ad aprire il nostro studio, assumiamo persone valide e inseguiamo la crescita professionale affiancandoci validi e talentuosi collaboratori. Ma ci sentiamo ancora troppo giovani per coprire quel ruolo da vecchi. Quel ruolo che tanto temevamo. E cosi cerchiamo di sdrammatizzare l’età vestendoci ancora da ragazzini, evitando di sposarci o impegnarci seriamente costruendo una famiglia. Come novelli Peter Pan fermiamo il tempo. O ci illudiamo di poterlo fare. E inevitabilmente crolla quella separazione virtuale tra la nostra generazione e quella successiva. I giovani di oggi ci vedono come i fratelli giovani dei propri genitori coi quali chiacchierare, ai quali confidare qualche segreto, anche quello che mai svelerebbero a mamma e papà. Si sentono autorizzati ad onorarci della loro considerazione, quella da “pacca sulla spalla” come a voler dire “Ehi zio, sei stato in gamba ma ora, anche se ho solo 19 anni e zero esperienza in tutto, fatti da parte, lascia fare a me e stai a vedere cosa so fare!”. Scatta la confidenza. E dalla confidenza alla mancanza di rispetto il passo è breve!

Se da un lato è facile puntare il dito contro i giovani, dall’altro è d’obbligo una sana autocritica e un responsabile mea-culpa.

Dopo i genitori, la società, il sistema, è ora di guardarci e attribuirci la nostra dose di responsabilità.

È importante capire chi si ha di fronte e prontamente rapportarsi con lui nel modo più adeguato affinché la sua crescita e una serena convivenza ne possano trarre beneficio. È difficile farlo, talvolta anche antipatico ma dobbiamo farlo per un senso di responsabilità nei confronti di una generazione che sta crescendo nel caos più totale.

Anche io lo farò e comincerò sin da subito. Per cui da domani lo spedirò a calci in culo da dove è venuto!

Scherzo dai! 😀

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