Monument era stato presentato come la rivoluzione del backup fotografico domestico. Un dispositivo da collegare alla rete di casa, capace di salvare automaticamente tutte le foto e i video dello smartphone, organizzarli in modo intelligente e permettere l’accesso da qualunque parte del mondo, senza mai passare da un cloud esterno. Privacy totale, semplicità d’uso, e la certezza di avere tutto sotto controllo, in casa propria.
Questa era l’idea. Ambiziosa, affascinante. E profondamente tradita.
Una promessa infranta
Monument Labs Inc. si è presentata come l’unica vera alternativa ai colossi del cloud. Un sistema libero, etico, privato. Ma oggi, a pochi anni dal lancio, è chiaro che quella promessa non è stata mantenuta: l’azienda ha spento i propri server centrali senza preavviso, e da quel momento tutti gli utenti si sono ritrovati con dispositivi inutilizzabili.
Sì, perché contrariamente a quanto dichiarato, l’app Monument non funziona in modalità realmente offline. L’avvio dell’app su iPhone richiede un passaggio sui server Monument. E se quei server non esistono più, non esiste più neanche la tua libreria.
Il mio caso personale
Utilizzavo Monument 1 da diversi anni. All’inizio tutto funzionava perfettamente: backup automatici da iPhone, riconoscimento volti, accesso da remoto. Poi, improvvisamente, l’upload automatico ha smesso di funzionare. Ho pensato fosse un problema locale, ho rifatto la configurazione, reinstallato tutto. Nulla.
La verità l’ho scoperta solo grazie a una ricerca su Reddit: Monument Labs ha chiuso i server all’inizio del 2025. Nessuna mail, nessuna notifica, nessuna guida ufficiale per esportare i dati. Solo silenzio.
Per fortuna, uso anche l’app per Mac, che ancora riesce ad accedere al dispositivo e scaricare i contenuti. Ma è chiaro che è solo questione di tempo prima che un aggiornamento di macOS renda inutilizzabile anche questa scorciatoia.
Apple Foto: la mia vera ancora di salvezza
Per fortuna non avevo affidato tutto a Monument. Da sempre mantengo una doppia copia della mia libreria Apple Foto su due dischi esterni. Apple Foto è, a oggi, l’unico sistema che conserva davvero ogni informazione legata a una foto o a un video:
Versioni multiple dello scatto (originale + modifiche)
Modifiche non distruttive e reversibili
Parametri dinamici come messa a fuoco o profondità
Dati EXIF completi e geolocalizzazione
Live Photo, effetto ritratto, slow motion
La libreria è accessibile da Mac, esportabile, facilmente copiabile e supportata a lungo da Apple.
QNAP QuMagie: con AI locale per riconoscimento volti e oggetti
Immich: soluzione open source, compatibile con Docker, con upload automatico, tagging e ricerca
Nextcloud con Photos: per i più smanettoni che vogliono una piattaforma del tutto autonoma
Monument, che figuraccia!
Monument Labs Inc. ha tradito la fiducia dei suoi utenti. Non solo tecnicamente, ma anche moralmente. Promettere libertà e indipendenza, e poi spegnere tutto senza preavviso, è un comportamento grave, scorretto, menzognero.
Chi gestisce i ricordi altrui ha una responsabilità immensa. E Monument, purtroppo, ha dimostrato di non essere all’altezza.
La lezione è semplice: mai fidarsi ciecamente di un sistema che non si può controllare. E, soprattutto, non sottovalutare mai l’importanza di avere copie fisiche, accessibili e future-proof dei propri ricordi.
Se anche tu sei rimasto scottato da Monument o stai cercando una soluzione alternativa, spero che questa mia esperienza possa esserti utile. E se hai trovato la tua strada, raccontala nei commenti: perché l’unico cloud davvero sicuro è quello che possiamo toccare.
Il 9 gennaio 2007, Steve Jobs salì sul palco del Macworld di San Francisco per presentare un dispositivo che avrebbe rivoluzionato il mondo. Un telefono, un iPod, un browser internet… ma soprattutto, un’illusione perfettamente orchestrata.
Perché sì, dietro a quella presentazione impeccabile si celava un segreto che oggi fa quasi sorridere: il primo iPhone non funzionava. O meglio, funzionava a patto di non fare nulla che non fosse già stato attentamente pianificato. Più che una dimostrazione tecnologica, sembrava una scena da prestigiatore: bastava un tocco fuori posto, e il trucco sarebbe stato svelato.
Il “percorso dorato”: una coreografia perfetta
Per evitare figuracce mondiali, gli ingegneri Apple prepararono per Jobs un “percorso dorato”, ovvero una precisa sequenza di tocchi e azioni da eseguire senza deviazioni. Perché? Perché l’iPhone del 2007 aveva il carattere di un adolescente ribelle: funzionava solo quando voleva lui.
Riprodurre una canzone? Sì, ma solo qualche secondo prima di crashare. Guardare un video? Certo, ma non troppo a lungo o il sistema collassava su se stesso. Navigare su internet? Magari, se il Wi-Fi avesse deciso di collaborare.
A proposito di Wi-Fi, la situazione era così precaria che Apple dovette truccare la rete: per evitare interferenze, gli ingegneri impostarono il router su frequenze non autorizzate negli Stati Uniti e collegarono l’antenna dell’iPhone a un cavo nascosto dietro le quinte. Insomma, più che un telefono wireless, sembrava un vecchio telefono fisso con l’illusione della mobilità.
La scommessa
Ora, chiunque con un minimo di buonsenso avrebbe detto: “Steve, aspettiamo qualche mese, miglioriamo il prodotto e poi lo presentiamo”. Ma Jobs non era uno qualunque. Sapeva che il tempismo era tutto. Apple doveva bruciare la concorrenza sul nascente mercato degli smartphone, e questo significava una sola cosa: presentare l’iPhone a gennaio, a qualunque costo.
Così, con una discreta dose di faccia tosta e un team di ingegneri probabilmente sull’orlo dell’esaurimento nervoso, Jobs portò a termine la sua magia. Nessuno si accorse di nulla. La gente applaudì, la stampa impazzì, la concorrenza iniziò a sudare freddo.
Il resto è storia
Quella che poteva essere una catastrofe si trasformò in una delle presentazioni più iconiche di sempre. E mentre oggi siamo abituati a keynote iper-prodotti e senza sorprese, nel 2007 la posta in gioco era altissima. Se l’iPhone si fosse bloccato in diretta mondiale, Apple avrebbe perso credibilità e forse la rivoluzione degli smartphone sarebbe iniziata in modo diverso.
Invece, la scommessa pagò.
Il primo iPhone arrivò nei negozi sei mesi dopo, funzionante per davvero, e cambiò per sempre il nostro modo di usare la tecnologia.
Morale della favola? A volte per fare la storia basta una buona idea, una presentazione impeccabile e… un cavo ben nascosto dietro le quinte.
C’era una volta il coraggio. Quello di entrare in un ristorante senza sapere cosa aspettarsi, di comprare un oggetto senza aver letto dieci pareri contrastanti, di scegliere un hotel basandoci su una foto microscopica nel catalogo. Oggi? Oggi non compriamo nemmeno uno spazzolino senza aver consultato almeno tre siti di recensioni.
Facciamo un esperimento mentale. Vuoi comprare un tostapane. Sembra una decisione facile, giusto? Ma no, perché ormai siamo addestrati a controllare tutto. Apri il sito, guardi le stelline, filtri per “più recenti”, poi per “più votate” e infine per “più utili” (che nessuno ha mai capito davvero come vengano scelte).
Alla fine trovi la recensione perfetta: “Ottimo tostapane, croccantezza ideale, design elegante. 5 stelle.” Ok, lo compri. Ma poi scendi un po’ e trovi questa: “Dopo due giorni ha preso fuoco e ha quasi incendiato la mia cucina. 1 stella.”
Panico. Il tuo sogno di colazioni perfette sfuma, la paranoia si insinua. Vai su un altro sito, cerchi altre opinioni, trovi un altro tostapane… e il ciclo ricomincia. Dopo tre ore, decidi che forse il tostapane che hai già in casa non è poi così male.
Le recensioni false: chi sono davvero questi recensori?
Oltre all’ansia da recensione, c’è il problema dell’affidabilità. Alcune sembrano scritte da poeti decadenti: “Questo cavo USB ha cambiato la mia vita. 10/10, lo ricomprerei altre mille volte.” Ma è davvero possibile che un cavo USB susciti emozioni così profonde?
Altre sono palesemente vendette personali: “Cameriere scortese, pizza immangiabile, ho trovato un capello nel piatto. 1 stella.” E poi scopri che il locale ha 4,8 stelle su 5, con centinaia di recensioni entusiaste. Forse quel capello era del recensore stesso?
Ci sono poi le misteriose recensioni a una stella senza testo. Cosa significa? È un segnale in codice? È una protesta silenziosa? Oppure un cliente che ha sbagliato a cliccare?
E se tornassimo a decidere con la nostra testa?
Le recensioni possono essere utili, certo. Ma forse stiamo perdendo il piacere della scoperta, del provare qualcosa senza pregiudizi. Magari il ristorante con tre stelle su cinque è il posto perfetto per te, perché il cliente che si è lamentato lo ha fatto solo perché la pasta non era “al dente” secondo i suoi misteriosi standard personali.
Forse è ora di un piccolo esperimento: la prossima volta che dobbiamo comprare o prenotare qualcosa, proviamo a fidarci un po’ più del nostro istinto e un po’ meno delle opinioni altrui. Chi lo sa? Magari scopriremo un tostapane che non incendia la cucina, ma che fa il miglior pane tostato della nostra vita.
Qualche giorno fa mi è capitato qualcosa di decisamente inquietante. Stavo parlando al telefono con un amico di un prodotto – niente ricerche su Google, niente messaggi, niente social. Solo una chiacchierata tra due persone, come si è sempre fatto. Due giorni dopo, senza che io abbia mai cercato nulla a riguardo, mi ritrovo pubblicità proprio di quel prodotto su Facebook e Instagram.
Ora, fosse la prima volta, potrei anche pensare a una coincidenza. Ma succede sempre più spesso, e a questo punto il dubbio diventa inevitabile: ci stanno ascoltando?
Le grandi aziende tecnologiche negano tutto. Dicono che non serva ascoltare, perché gli algoritmi di tracciamento sono già abbastanza avanzati da prevedere i nostri interessi basandosi sulle ricerche fatte, sui siti visitati e sulle interazioni con gli amici. Ma qui il punto è un altro: quando un prodotto che non ho mai digitato, mai cercato, mai sfiorato in alcun modo compare davanti ai miei occhi dopo una semplice conversazione a voce, qualcosa non torna.
Nessuna prova ufficiale, ma tanti sospetti
Se si cerca una conferma definitiva, non la si trova. Non esiste un’indagine che dimostri con certezza che smartphone e app ascoltano le nostre conversazioni per scopi pubblicitari. Eppure, nel tempo, qualche elemento sospetto è emerso: Facebook è stata più volte accusata di farlo. Mark Zuckerberg ha sempre negato, ma il sospetto non si è mai spento. Google e Amazon hanno ammesso che i loro assistenti vocali registrano conversazioni private. Ufficialmente, non per pubblicità, ma per “migliorare il servizio”. Certo.
Alcune app sono state beccate ad accedere al microfono senza autorizzazione esplicita. Chi ci dice che altre non lo facciano ancora?
Il punto è semplice: nessuno può dimostrare che ci ascoltino, ma nessuno può nemmeno dimostrare con assoluta certezza il contrario. E le coincidenze iniziano a essere troppe per archiviarle come semplici casualità.
Come potrebbe funzionare?
Se volessero ascoltarci, non lo farebbero registrando ogni parola – sarebbe assurdo per quantità di dati e impatto sulla batteria. Ma potrebbero attivare il microfono per pochi millisecondi, intercettare parole chiave e associarle al nostro profilo pubblicitario. Oppure, potrebbero sfruttare il tracciamento incrociato: magari non è il mio telefono a spiare, ma quello del mio interlocutore, che subito dopo la telefonata fa una ricerca su Google, dando così il segnale agli algoritmi.
La verità è che non sapremo mai fino in fondo come funziona davvero. Le aziende che gestiscono questi sistemi hanno accesso a una quantità di dati immensa e a tecnologie di tracciamento sempre più sofisticate. L’unica certezza è che più sanno di noi, più ci profilano, più guadagnano.
Possiamo evitarlo?
Disattivare il microfono di alcune app, ridurre il tracciamento pubblicitario, spegnere gli assistenti vocali: qualche contromisura esiste, ma nella realtà dei fatti, evitare del tutto questo meccanismo è impossibile. A meno di non spegnere il telefono e tornare a vivere come negli anni ’90.
La questione è seria, perché se davvero ci stanno ascoltando, non stiamo parlando solo di pubblicità invadente. Stiamo parlando di una violazione della privacy enorme, normalizzata e accettata solo perché nessuno riesce a dimostrarla fino in fondo.
Per ora, le aziende negano e le prove schiaccianti non ci sono. Ma ogni volta che succede, ogni volta che compare quell’annuncio che non dovrebbe esserci, la sensazione che qualcosa non quadri si fa sempre più forte.
Se casco, targa e assicurazione vi sembrano il funerale dei monopattini, beh, mettetevi comodi: il corteo funebre è già in strada. Anzi, potrebbe essere rallentato da un paio di monopattini parcheggiati in mezzo alla pista ciclabile.
Devo dirlo, questa questione mi tocca da vicino. Sono un orgoglioso proprietario di lunga data di un monopattino. Pensate che sono stato un “precursore” sin dal 2004, quando ho acquistato uno dei primi monopattini elettrici in commercio, con batterie che duravano a malapena il tempo di un giro dell’isolato. Negli anni, ho realizzato vlog dedicati ai modelli più aggiornati fino al 2022 e, sebbene ne possieda ancora uno, ahimè, ormai lo utilizzo solo durante le vacanze al mare. Ora, con queste nuove regole all’orizzonte, sono davvero indeciso su cosa farò nel futuro immediato.
È un peccato, lo ammetto. I monopattini elettrici sono stati per anni il simbolo della libertà urbana, il mezzo di trasporto per eccellenza di chi voleva sentirsi sostenibile, smart e un po’ ribelle. Li vedevi sfrecciare ovunque: sui marciapiedi, in contromano, tra i tavolini dei bar. Una rivoluzione su due ruote, che spesso dimenticava le regole basilari del vivere civile.
Ora, però, la festa sembra finita. Casco obbligatorio, targa e assicurazione sono le nuove regole del gioco, e per molti suonano come un epitaffio. Ma siamo sicuri che sia davvero così?
La rivoluzione… disciplinata.
L’idea di salire sul monopattino senza pensieri è sempre stata il suo fascino più grande. Lo prendi, parti e via, senza troppi fronzoli. Ma è proprio questa semplicità che ha portato a problemi non indifferenti: incidenti, parcheggi selvaggi, comportamenti pericolosi. Insomma, la libertà ha un prezzo, e spesso lo paga qualcun altro.
Le nuove norme mirano a risolvere questi problemi, rendendo i monopattini più sicuri e integrandoli meglio nel traffico cittadino. Certo, per chi li usava solo per un giretto occasionale o per andare in ufficio, queste regole potrebbero sembrare un deterrente. Casco? Ma non è che mi spettino? Assicurazione? Ma allora tanto vale prendere una macchina!
Un nuovo capitolo
Eppure, proviamo a vedere il bicchiere mezzo pieno. Queste regole potrebbero portare a un’evoluzione del monopattino, trasformandolo da mezzo di trasporto improvvisato a una soluzione di mobilità più seria e rispettata. Magari, con il tempo, vedremo meno parcheggi selvaggi e meno incidenti. E forse, dico forse, smetteremo di odiarli.
Le aziende di sharing, dal canto loro, dovranno adattarsi. I costi aumenteranno, certo, e probabilmente alcuni utenti occasionali spariranno. Ma chi davvero crede nei monopattini come alternativa di mobilità potrebbe apprezzare la maggiore sicurezza e l’ordine che queste regole promettono di portare.
È davvero un funerale?
Forse non è un funerale, ma una rinascita. Un addio al monopattino selvaggio e un benvenuto al monopattino responsabile. Certo, ci mancherà un po’ quel caos colorato e improvvisato che aveva reso le nostre città così… particolari. Ma chi lo sa? Magari, tra qualche anno, guarderemo indietro e ci chiederemo come abbiamo fatto a vivere senza casco, targa e assicurazione.
Il CES 2025 ha alzato il sipario su un’altra rivoluzione tecnologica: il Forum HDMI e l’HDMI Licensing Administrator (HDMI LA) hanno presentato ufficialmente lo standard HDMI 2.2. E no, non si tratta di un semplice aggiornamento.
Con una larghezza di banda massima di 96 Gbps, questo nuovo standard mette in pensione il suo predecessore HDMI 2.1 e spalanca le porte a risoluzioni stratosferiche come 10K a 120Hz, 8K a 240Hz e persino 4K a 480Hz. Per sfruttarlo, è stato lanciato il nuovo cavo certificato “Ultra96”, perché se non hai un nome che suona futuristico, nemmeno entri in gioco.
Prestazioni da urlo (ma serve davvero tutto questo?)
HDMI 2.2 è progettato per chi vuole il massimo e per chi ancora si chiede: “Ma l’8K esiste davvero o è un meme?” La realtà è che al momento i contenuti nativi in 8K (figuriamoci 10K) sono praticamente inesistenti. Tuttavia, gli schermi con frequenze superiori a 144Hz e dimensioni sempre più imponenti stanno diventando una realtà comune, e HDMI 2.2 si presenta come il ponte verso un futuro ultra-definito.
Se il tuo sogno è vedere ogni poro del viso degli attori o contare i pixel nei videogiochi, sei nel posto giusto. Se invece come me hai ancora un televisore Sony Full HD del 2009, forse è meglio aspettare.
Novità per il gaming e non solo
Tra le innovazioni più interessanti c’è il Latency Indication Protocol (LIP). Ti suona complicato? In realtà è il salvatore di chi ha passato ore a cercare di sincronizzare audio e video tra soundbar e TV. Grazie a questo protocollo, finalmente l’audio non arriverà in ritardo rispetto al movimento delle labbra degli attori (o dei calciatori, per chi come mio figlio guarda solo lo sport).
In più, il supporto al Dynamic HDR rende i colori più vivi, le ombre più dettagliate e le scene luminose così nitide che potresti dover indossare gli occhiali da sole.
Ma c’è un problema: la compatibilità
Tutto fantastico, vero? Peccato che per sfruttare HDMI 2.2 servano dispositivi compatibili, e al momento né le TV né le GPU di NVIDIA o AMD sono pronte. Un déjà vu di quando è arrivato il DisplayPort 2.1, accolto con un entusiasmo pari a quello per le diete detox dopo le feste.
Per adesso, HDMI 2.2 è un diamante grezzo in attesa di un mercato che lo accolga. La buona notizia è che il programma di certificazione “Ultra96” garantirà cavi autentici con tanto di etichette anti-contraffazione. Quindi, almeno, niente fregature su quello.
Serve davvero?
HDMI 2.2 è senza dubbio una pietra miliare. Ma a meno che tu non sia un gamer hardcore, un videomaker futurista o semplicemente un tech enthusiast che vuole tutto e subito, potrebbe essere il caso di aspettare. Dopotutto, anche se i tuoi occhi brillano all’idea di un 10K a 120Hz, la tua TV del salotto potrebbe risponderti con un secco: “Ma davvero?”.
E ora, via con le domande: tu quanto sei pronto a vedere il futuro in ultra-super-mega-HD?